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  • Ran Chiara

AL ROGO

I colpi incessanti alla porta la svegliarono. «Strega, apri la porta e consegnati alla giustizia di Dio!» Aristia sospirò; si aspettava che prima o poi sarebbero venuti a prenderla e ucciderla, ma avrebbe preferito avere più̀ tempo, soprattutto ora che la peste stava tornando a diffondersi nel villaggio. Si alzò dal letto, indossò una veste elegante e si avviò all’uscita di casa. Diede un ultimo sguardo all’interno della piccola capanna che era stata il suo riparo e poi aprì la porta. Fuori trovò una moltitudine di gente che vociava. Un uomo di Chiesa parlò: «Donna, sei condannata al rogo per aver esercitato stregoneria.» Lei lo guardò dritto negli occhi, poi rispose con fare sicuro: «Non ho mai impiegato magia maligna o del diavolo. L’unica cosa che ho fatto è stata curare le genti che si recavano a casa mia.» Il sacerdote la colpì in faccia con uno schiaffo. «Come osi controbattere! Non sei altro che una serva del male.» Al cenno dell’uomo, altri due villani la presero per le braccia, legandole le mani sul davanti. Nel mentre, alcune persone gettarono una torcia accesa sulla casa, dandola alle fiamme. Aristia non poté́ fare a meno di guardare l’edificio bruciare, ma non le fece alcun effetto: lei non rimpiangeva nulla.

La condussero in piazza con una lugubre processione. Al centro si stagliava, alta verso il cielo, la cattedrale, piena di figure maestose che giudicavano severamente la ragazza. Davanti alla costruzione vi era un palo con una catasta di

legna e della paglia ai suoi piedi. Prima che la legassero, Aristia prese un grosso respiro. Le mani le facevano male per il nodo troppo spesso, ma sapeva che era niente in confronto a quello che stava per provare. Un uomo dietro di lei le tagliò i lunghi capelli dorati. Caddero a terra leggeri come petali sfioriti.

Il sacerdote iniziò a parlare. «Aristia Obelia, sei stata condannata alla morte sul rogo per stregoneria. Hai qualcosa da dire, prima di essere giustiziata?» Aristia alzò la testa, guardando il cielo. Sorrise. Era una notte davvero bella, quella, con le stelle che sembravano chiamarla. Abbassò il capo: «L’unica cosa di cui sono colpevole è quella di non essere riuscita a curare in tempo mio figlio. Per quanto riguarda il resto, sono innocente. Ciò̀ che ho fatto è stato salvare vite.» Scrutò con occhi indagatori i presenti. In piazza nessuno provò a difenderla, neanche quelli che lei aveva aiutato e curato: rimasero tutti zitti.

Poi portarono le torce e le gettarono ai suoi piedi. Lei iniziò a percepire il calore lambirle la carne. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Il dolore diventava sempre più̀ intenso. Bruciava. Ripensò al suo bambino; non era riuscita a salvarlo dalla terribile malattia e aveva deciso che avrebbe aiutato le persone, cosicché́ nessuno fosse costretto a vivere quello che lei aveva provato. Non aveva rimpianti. Ripensò alle stelle incorruttibili e immortali nel cielo. Chiuse gli occhi.

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